venerdì, maggio 19, 2006
Navigando in rete ho letto questo articolo, l'ho trovato interessante ed ho pensato di riportarlo qui, sul blog.
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Questo non è lo scandalo del calcio, ma di un paese intero, che ha lasciato che tutto ciò accadesse: non in un anno, in decenni. Quanti conoscevano lo stato delle cose e non hanno fatto niente? Quanti se ne sono avvantaggiati, impetrando come Pisanu i favori del piccolo zar Luciano? Ora dedichiamo allo scandalo enorme rilievo, ma passata la piena penseremo ad altro, per non sfasciare il giocattolo. Sarebbe un errore, perchè l’inerzia distruggerebbe il giocattolo, ma soprattutto un’immagine nazionale già molto compromessa. Se il calcio grufolava tranquillo nel trogolo della Gea, c’è poco da lamentarsi del protagonismo della magistratura. Meno male che questa, dopo aver subito lunghi anni di assalti, è ancora in grado di fare il suo lavoro, intervenendo quando uno o più soggetti, anche colletti bianchi, commettono reati o danneggiano altri.

Se il calcio è business

Il calcio è soprattutto un business: guardiamo allora lo scandalo e le sue conseguenze in chiave di correttezza contabile e di effetti sui conti dello Stato. Il mondo della politica, lungi dal lavorare per risanare il calcio, gli ha lisciato il pelo, aggravando l’andazzo. All’ennesimo scandalo calcistico Berlusconi se ne uscì a dire: "moralizzazione è una parola grossa". Il suo governo ha agito di conseguenza. Ha sospeso con norma speciale- il decreto "salvacalcio"- il Codice Civile per le società calcistiche: grazie al decreto, le perdite sul parco-giocatori, magari a fine carriera, sono spalmate su 10 anni. Ciò esenta gli azionisti di controllo delle squadre dal tirar fuori soldi per sanare i conti. Una norma eccezionale, di pura cosmesi, valida solo per le società calcisitche, varata senza considerare che tre di queste erano quotate. Commentava profetico all’epoca Franco Carraro: "E’ un importante tassello nell’indispensabile risanamento del calcio professionistico"!

Dopo questo favore- reso alle tasche di una ventina di persone con nome e cognome, non alle società- il governo ha definito la composizione dei campionati 2003-’04, con l’occhio all’audience e ignorando i risultati sportivi. Ha permesso alla Lazio di pagare in 23 comode rate annuali i debiti col fisco per somme trattenute ai giocatori e non versate, sostenendo che almeno così incassava qualcosa, mentre se la società fosse fallita non avrebbe preso nulla. È falso, in luogo della società dovevano pagare i giocatori, percettori del reddito e responsabili in solido; essi potevano insinuarsi al passivo fallimentare e trasformare in azioni il loro credito. Almeno avremmo visto questi strapagati signori rischiare qualcosa sul loro lavoro, e non in scommesse vietate dalla legge e dal buon senso. Soprattutto, se la Lazio fallisse, gli altri pagherebbero di corsa per evitare quella fine, dato che invece paga in un quarto di secolo, la imitano. Così l’ammontare delle imposte arretrate (per Iva e ritenute) dovute dalle squadre ha superato i 650 milioni di euro.

Il calcio è "legibus solutus", i protagonisti dello scandalo (i sommersi e i salvati) lo sanno e ne approfittano: come scrivono Marco Liguori e Salvatore Napolitano ("Il pallone nel burrone"- Editori Riuniti - 2004), le società non pagano Irap sulle plusvalenze da vendita giocatori, contrariamente a quanto stabilito dall’Agenzia delle Entrate, in base ad un semplice parere della Lega. Fra Stato e corporazione, prevale la seconda, siamo il paese della libertà, quella di non pagare: ci si guadagna sempre.

Poi c’è il tema grosso della quotazione dei club. Dopo lunghe riflessioni la Consob, di cui chi scrive faceva parte come commissario, concesse (aprile ’98) il nulla osta alla pubblicazione del prospetto della Lazio, che Borsa Italiana aveva ammesso alla quotazione. Le pur forti "avvertenze" che la Consob impose allora non si sono dimostrate sufficienti. Si potrebbe arguire che i dirigenti di una società possono sempre commettere illeciti, ma non si deve per questo vietare la quotazione di qualsiasi società. Il punto è che il mondo del calcio ha mostrato una tendenza a comportamenti illeciti che non può più essere ignorata. Ne discende che per il futuro va ripensata, forse vietata, la quotazione in borsa. Nulla vale come l’esperienza pratica, e questa ha dimostrato che la quotazione di società di questo tipo non funziona. Interessante invece la proposta di Angelo Rovati ("Corriere" 16 maggio): le squadre cedano marchio e titolo sportivo ai comuni, in cambio dello stadio. La squadra paga royalties al comune, in cambio dell’uso di tali cespiti. Se la squadra fallisce va male solo per gli azionisti, e il titolo sportivo rimane, col marchio, al comune, che individuerà i nuovi proprietari della squadra. Rovati propone anche, come diversi interventi su La voce.info., una superlega europea per i big e campionati nazionali per le squadre "normali". Certamente si deve diminuire la distanza siderale fra le risorse economiche che affluiscono ai club partecipanti al medesimo campionato, come ricordato sempre su La voce.info..
Il calcio ha punito gli onesti e premiato i furbetti. Bisogna fare il contrario, come dice Guido Rossi, ottimo commissario straordinario della Figc; le sue competenze in tema di antitrust verranno utili per pervenire ad un assetto dello sport che sia più competitivo e meno pervaso dai conflitti d’interesse. Ricordiamo che non ci sono solo le violazioni di norme, ma anche i comportamenti osceni. Non è tempo di prudenza, ma di fermezza. Se le vecchie leggi non sono state osservate, nuove norme da sole non risolvono il problema. Non tanto nuove leggi servono, allora, quanto il ripristino di quelle esistenti, troppo a lungo sospese. Lo stato, tanto per cominciare, si faccia pagare 650 milioni di imposte arretrate, lasciando che fallisca chi deve fallire. Entrerà aria nuova, e lo scandalo sarà servito a qualcosa.

Salvatore Bragantini*, 18 maggio 2006

*: ex Commissario Consob
 
posted by ste at 6:33 AM
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